lunedì 10 marzo 2008

ALLA LUCE DEL SOLE


Riprende il ciclo di degustazioni dei vini dolci da uve appassite piacentini con due Malvasia di cui ho avuto il piacere di assaggiare tutte le annate: dodici per il Vigna del Volta della Stoppa (1995 – 2006), sei per il Passito del Negrese (2001 – 2006). Entrambi i vini provengono da uve appassite al sole. Come in Calabria, in Sicilia, nel grembo del Mediterraneo. Solo che qui ci troviamo in due lembi dell’Emilia occidentale: la Val Trebbiola della Stoppa e la Val Tidone del Negrese.
Su tutti i testi dell’ortodossia enologica c’è scritto che al nord le uve vengono fatte (vanno fatte) appassire nei solai, all’ombra, lontani dal sole. Mentre al sud l’appassimento avviene (deve avvenire) su teli o sostegni esposti alla luce solare diretta. Perché allora questa apparente anomalia?
I due produttori, Elena Pantaleoni e Matteo Braga, con estrema naturalezza affermano che il Malvasia Passito per loro è il vino più facile da fare. Possono sembrare quasi provocatori o presuntuosi quando dicono ciò. Niente di tutto questo, anzi la frase dei due produttori merita attenzione e va sviscerata, perché tradotta significa che la malvasia di Candia aromatica è un’uva talmente ricca, e ancora in parte sconosciuta e sottovalutata, che trova probabilmente nei vini da appassimento la versione in cui le potenzialità del vitigno raggiungono il massimo dell’espressività, in cui comunque i caratteri di calore, polpa e mediterraneità trovano maggior sfogo. E in alcune conche, in alcuni versanti dei colli piacentini fa caldo, molto caldo. Il sole si fa violento e rabbioso. Da qui l’idea di provare a far esprimere alla malvasia il lato solare ed esplosivo, che pochi altri vitigni posseggono, attraverso un appassimento al sole. Da qui l’intuizione che in alcune zone si possa verificare una perfetta fusione di territorio/vitigno/tecnica di appassimento che secondo Elena e Matteo va “solo” assecondata verso il risultato finale.
Se poi l’appassimento al sole per questo vitigno e questo territorio sia LA strada ancora non lo sappiamo, questa è una delle tante domande alle quali si cercherà di dar risposta con le prossime degustazioni. Emerge però, visti i risultati, il dubbio che possa essere una strada ancora troppo poco battuta.



LA STOPPA

La Stoppa coltiva circa 30 ettari vitati, accorpati attorno all’affascinante torre di impianto medievale che accoglie i visitatori in arrivo dalla strada che attraversa la Val Trebbiola, tra la Val Trebbia vera e propria e la Val Nure, in comune di Rivergaro. Oggi l'azienda, dal 1973 di proprietà della famiglia Pantaleoni, è condotta da Elena Pantaleoni con la collaborazione di Giulio Armani.
La Stoppa produce alcune etichette legate ai vitigni autoctoni come bonarda, barbera e malvasia aromatica di Candia, oltre a vini prodotti da vitigni…autoctoni, perchè presenti in azienda dalla fine dell‘800, come il cabernet sauvignon e il merlot.
Elena dice di lavorare le stesse vigne che alla Stoppa esistono da oltre un secolo senza chiedere nulla di più di quello che naturalmente possono dare. Ecco allora l’idea di produrre un Malvasia Passito, scattata dalla constatazione che in questo territorio produrre sauvignon e pinot nero alla lunga può essere una forzatura, non tanto perché si tratta di uve “francesi”, poco legate al territorio o qualcosa del genere, ma perché in particolare nei versanti esposti a sud le suddette uve rischiano di soffrire eccessivamente il caldo. Punto. Ecco quindi l’intuizione di coltivare un vitigno come la malvasia di Candia aromatica che sopporta, forse ama e chiama, il caldo più di altre. Un’uva che geneticamente più di altre porta con sé i geni mediterranei. Il Vigna del Volta nasce da un’interpretazione del territorio fatta dall’Uomo, che prova a proporne una definizione e una traduzione.
Viene prodotto da un assemblaggio di malvasia di Candia aromatica e moscato bianco. Mediamente quest’ultimo rappresenta il 10% sul totale, nelle prime annate era anche di più, ma nelle ultime vendemmie la percentuale è scesa per l’entrata in produzione di nuove vigne di malvasia. I terreni sono ricchi di argille rosse ferrettizzate come in buona parte di quest’area dei colli piacentini.
Dopo le prime prove di appassimento su teli neri di plastica (dove gli acini “bruciavano”), l’azienda è rapidamente passata a teli bianchi stesi in un appezzamento tra le vigne per 10-15 giorni (la parte di moscato però ha tempi più rapidi di appassimento, circa 2 giorni), con successiva torchiatura e fermentazione del mosto in legni piccoli.


La fermentazione avviene generalmente in barriques o tonneaux, di solito usati (compatibilmente con il ciclo di rinnovo dei legni in alcune annate il vino ha fermentato in legni nuovi).
L’alcol svolto varia tra il 13% e 14%, con un residuo zuccherino che è aumentato dai circa 100 gr/l delle prime annate ai circa 135-140 gr/l delle ultime.
Dalle 1.000 bottiglie prodotte nella prima annata si è gradualmente passati alle circa 10.000 degli ultimi anni e alle 15.000 del 2006.
La degustazione si è svolta il 25 febbraio 2008 presso La Stoppa.

Operazioni di stappatura alla Stoppa

1995
Se raffrontata alla maggior parte delle annate che seguiranno questa è un po’ anomala, al naso soprattutto, e in alcune sfumature “nordiche” sembra quasi volerci portare ad altre latitudini ed altri vitigni. Di vivo slancio balsamico, con spiccate e fresche note di salvia e marmellata d’arancio, la prima versione ufficiale di Vigna del Volta attacca ancora oggi con un palato d’ampiezza importante, subito percorso da un corpo acido rinfrescante che ne accentua la bevibilità conducendo verso un finale tonico e di carattere. 89

1996
Bottiglia con cenni più marcati di ossidazione che tendono ad appiattire il naso su profumi tra i meno brillanti della degustazione. La bocca è comunque piacevole e non priva di spinta grazie anche allo slancio balsamico che emerge nel finale. 83

1997
Grande naso cangiante e in continuo movimento, dove accanto a seducenti aromi di pesca gialla e albicocca sciroppata emergono scie balsamiche insieme a sfumature di agrumi e funghi secchi. In bocca attacca pieno e denso sviluppandosi con avvolgenza, percorso da tratti di eleganza e fresco dinamismo. Emerge con forza il timbro di palpitante solarità senza stucchevolezza che è tratto distintivo di questo vino. Di livello assoluto. 92

1998
Naso curioso con note che inizialmente fluttuano tra sensazioni “verdi” di asparago e pisello e si spostano poi su tratti di liquirizia. In bocca è di generosa densità, grasso e succoso, rinvigorito da una buona acidità. Lungo nel finale molto piacevole. 88

1999
Tonalità di un giallo oro ramato un po’ più tenue (l’annata è stata fresca), con naso leggermente chiuso da elementi tostato/vanigliati non particolarmente eleganti. La bocca, pur se abbastanza lunga, non esplode come vorresti, incespicando senza particolari sussulti, né avvolgenza di frutto. 84

2000
Da un’annata calda il ritorno a un Vigna del Volta “classico” e mediterraneo con note di pesca e albicocca in evidenza. Attacca molto concentrato e non manca di vivacità finendo con una punta amarognola. Per arrivare a vertici assoluti gli manca forse un po’ di quel contrasto che ritroviamo in altre annate. 89

2001
Colore un po’ meno concentrato. Da un’annata abbastanza fresca e variegata una versione complessa con naso fresco, tra il floreale e il verde-balsamico della salvia, che con l’ossigenazione si muove leggermente su timbri agrumato-verdi sempre di bella freschezza. In bocca mostra sprint ed è abbastanza nervoso, si sviluppa rotondo con bel ritorno acido nel finale che ne esalta la persistenza. Eccellente bevibilità. 90

2002
Come probabilmente ci si poteva aspettare da un’annata simile, nel vino si ritrova un corredo di polpa e muscoli relativamente limitato. Il naso affascina per i profumi di marmellata d’arancio e frutta gialla sciroppata. Al palato è vivo e dinamico, solo si stringe un po’ a partire dal centro bocca. 87

2003
Una delle migliori versioni di sempre da un’annata calda e grossa. Il naso esplode senza pesantezze su dolci profumi di frutta gialla matura, miele d’acacia e porcini secchi. Il palato si distende polposo, grasso e molto seducente, innervato però da striature acide che bilanciano la materia. Chiude con scioltezza, esibendo la disinvoltura dei grandi vini. Di lampante esplosività vellutata. 92

2004
Il naso molto espressivo dirompe in note polpose di pesca e albicocca chiudendo su sensazioni di scorza d’agrumi. Il palato attacca ampio e consistente, ma trova presto rilievi acidi e lievi contrasti tannici che creano articolazione ed equilibrio, trovando sfogo in una chiusura lunga e di grande vitalità. Esemplare nella sua solare dolcezza e nella ricchezza dinamica. 91

2005
Versione (che ha avuto un passaggio in tino di legno) meno generosa al naso rispetto alle precedenti, come se la dolcezza di frutto fosse inibita e nascosta. La bocca, potente, dolce e alcolica, è percorsa da rilievi e contrasti, con contrappunti tannici un po’ rigidi che tendono a frenarne la beva.84

2006
Imbottigliato a metà gennaio. E’ l’annata che, grazie anche all’entrata in produzione di vigne giovani, segna il passaggio da 10.000 a 15.000 bottiglie.
Se il naso per ovvie ragioni è ancora un pò umbratile (emergono comunque interessanti tracce floreali e di canditi) e scalpita faticando in parte a liberarsi, la bocca rivela dinamismo e buona spinta propulsiva che in previsione, dopo un’annata interlocutoria come la precedente, fa tornare questo vino all’eccellenza. Il calore alcolico e la dolcezza sono ben dosati e bilanciati da tannini che arricchiscono senza irrigidire la materia. Chiede ancora un po’ di pazienza, per ora 89, ma potrebbe crescere

Le 12 bottiglie degustate

Appunti disordinati

Elena Pantaleoni

Giulio Armani...no, non è Vigna del Volta quello che sta per essere versato...c'è stato un assaggio fuori programma

IL NEGRESE

Dal 2001 Matteo Braga è l’anima pulsante della parte vitivinicola dell’azienda di famiglia, Il Negrese, (c’è anche un agriturismo condotto dalla madre Angela e dalla sorella Annalisa) che conta in tutto otto ettari coltivati a barbera, bonarda, malvasia e ortrugo allevati a Guyot in vari appezzamenti sparsi nel territorio di Ziano, a ridosso della collina di Montepo. In un’area dove il frazionamento delle viti raggiunge livelli pazzeschi con decine di proprietari in pochi chilometri quadrati, i terreni marno-argillosi vedono la prevalenza di una terra sciolta e leggera, chiara e poco fertile (mentre in località Negrese, dove Matteo ha la cantina ma non le vigne, la terra è appunta “negra”, con argille scure). Unica eccezione nel piccolo appezzamento di malvasia posto a fianco della storica Azienda La Solitaria, ai piedi del centro abitato di Ziano, dove le vecchie vigne poggiano su argille più scure e fertili.

Da questo punto, girando lo sguardo alle proprie spalle, si scorge la vigna nota come “La Polveriera”, così chiamata per l’uso che se ne faceva durante la seconda guerra mondiale. Il nome si addice alla collina anche per l’uso che se ne fece in seguito quando qui furono installati i cannoni antigrandine che, beffarda ironia della sorte, finirono distrutti…dalla grandine.

Vigna utilizzata per la produzione di Passito

La filosofia di Matteo parte naturalmente da un grande rigore in vigna (alla domanda se non abbia intenzione di ampliare il proprio patrimonio vitato, risponde che prima vuole imparare a conoscere a fondo le vigne già esistenti, poi si vedrà), per arrivare a ridotti interventi in cantina dove sui rossi ha scelto la strada delle lunghe macerazioni e di un uso molto accorto del legno nuovo.

Qui tra qualche anno Matteo raccoglierà grappoli di malvasia



Il Negrese si è fatto conoscere grazie soprattutto al Malvasia Passito (inizialmente realizzato con l’aiuto della cugina Elena Pantaleoni e di Giulio Armani della Stoppa) di cui oggi Matteo è uno dei portabandiera, prodotto da malvasia di Candia aromatica appassita al sole su teli bianchi di plastica per periodi variabili tra due e tre settimane. Utilizzando solo lieviti indigeni la fermentazione viene fatta svolgere in acciaio inox o in legno non nuovo (barriques e tonneaux), o in entrambe le tipologie di contenitori a seconda delle annate.
Dai tempi degli inizi quando Matteo si prendeva del matto in paese per la scelta di usare la malvasia per produrre un Passito, le cose sono cambiate e oggi questo vino è diventato uno dei Passiti di riferimento dei colli piacentini, ormai un classico. Dunque visto che le annate prodotte sono sei, sette col 2007 ancora in affinamento, era ora di provare a testare a 360° questo nettare, per svelarne le sfumature nelle diverse traduzioni delle varie annate e per sondare l’aspetto ancora poco esplorato del suo sviluppo evolutivo nel tempo.

Matteo Braga disserta su Montepo


La degustazione si è svolta il 23 febbraio 2008 presso Il Negrese.

2001
Annata complicata in fase di appassimento per una tromba d’aria che ha compromesso circa metà dell’uva stesa sui teli.
Una delle due annate interamente fermentate in legno.
Dorato intenso (ma è il colore più scarico tra i sei campioni), con naso piacevole anche se un po’ semplice di marmellata d’arance e, dopo ossigenazione, albicocca e lieve liquirizia. In bocca si rivela di dolcezza più contenuta rispetto alle altre annate, con sviluppo lineare senza sussulti, relativamente sottile e di bella bevibilità. 82
1.500 bottiglie.

2002
Appassito al sole per 20 giorni e fermentato in legno.
Nonostante l’annata molto piovosa, la selezione feroce dei grappoli ha permesso di ottenere uve molto concentrate che svilupperanno alla fine il 14% di alcol svolto e soprattutto un grande passito, che come retaggio dell’annata fresca porta in sé un bel nervo acido. Calde tonalità ramato-arancioni preannunciano un naso esplosivo che regala confettura di pesca, albicocca matura, dattero, funghi freschi e scorza d’agrumi. Si rivela il naso più cangiante e complesso tra i sei, dopo un’ora esprime sensazioni di caramella mu e liquirizia con scie quasi balsamiche a chiudere di erbe aromatiche (timo, rosmarino e mirto). L’attacco è molto grasso e largo e trova contrasto e dinamismo grazie alla spinta acida che rinfresca e allunga il finale. 90
2.000 bottiglie.

2003
Il frutto di quest’annata rovente (sui teli si è arrivati anche a 65°-70°) è stato fermentato parte in acciaio inox e parte in legno.
Alla vista si offre di un bel ramato caldo, con naso polposo di frutta gialla molto matura e accenni di volatile. Largo e molto concentrato, trova più peso (diciamo più forza bruta), meno contrasto ed eleganza rispetto al 2002, ma mantiene quegli affascinanti caratteri di seducente mediterraneità che sono tra i tratti distintivi di questo Passito. 84
4.000 bottiglie

2004
Causa grandine nessun grappolo proveniente dai vigneti del Negrese è stato utilizzato in questa vendemmia. Tutta l’uva – malvasia e moscato - è stata acquistata, anche da vigne poste a 450-500 metri. Matteo Braga ha fatto miracoli dimostrando ancora, dopo il 2002 e in parte il 2003, ciò di cui è capace quando si tratta di gestire annate difficili. Quindi anche se lo stesso produttore non lo sente del tutto suo, questo vino è comunque da considerarsi esemplare e di riferimento nella storia dell’azienda (che non vuol dire il migliore). Fermentato in acciaio inox, si offre con invitante e consueta tonalità ramato-arancione. Il naso è segnato da una volatile un po’ esuberante che smorza le abituali e generose note fruttate, lasciando trasparire aromi di liquirizia e mela cotogna. In bocca attacca grasso trovando subito sostegno in una vena acida che lo prende per mano e lo conduce verso uno sviluppo vivo e scattante. Buon finale. Un punto in più per i problemi dell’annata, 83
2.000 bottiglie

2005
Dopo due vendemmie anomale, finalmente un’annata equilibrata che ha portato all’appassimento acini di ottima qualità. Interamente fermentato in acciaio, fa seguire alla calda espressione visiva ramata un naso generoso e varietale che libera toni di confettura di albicocche e pesche sciroppate, sfumando su sensazioni di funghi freschi e rabarbaro. La bocca solare e di grande dolcezza, cremosa e ricca (quasi 25% di alcol complessivo), incede con decisione e ampiezza di volume pur se un po’ meno ritmata del 2002, con cui rivaleggia per valore restando di poco sotto anche per un naso meno complesso. Siamo comunque ai vertici della tipologia Malvasia Passito. 89
1.800 bottiglie

2006
Leggermente meno carico alla vista, al naso è giocato su scie agrumate e di frutta gialla con slancio espressivo meno dirompente dell’annata precedente. In bocca trova uno sviluppo equilibrato e ben bilanciato che gli dona un’eccellente beva. Lineare e molto piacevole, trova un impianto gustativo caldo e ampio, regolare e compatto. E’ notevole la costanza qualitativa ormai raggiunta da Matteo Braga. 88
4.400 bottiglie

(2007)
Assaggiato dalle “vasche” (cioè una vasca d’acciaio inox, una barrique e due tonneaux) promette assai bene, ovvero potrebbe-dovrebbe arrivare ai livelli delle annate migliori, ma è ancora parzialmente in fermentazione (l’alcool complessivo s’aggira sul 26%) e in fase di pre-assemblaggio, per cui…ne riparleremo.

Le botti utilizzate per il Passito (Matteo usa anche una vasca di acciaio inox da 10 Hl.)

Seventies style...giuro di aver scattato questa foto nel 2008


Le 6 annate degustate

Le mie scarpe nuove impolverate dopo il giro nei vigneti del Negrese...mi sono detto: nella prossima cantina mi presento in scarpe da ginnastica...

...detto fatto, solo che non è servito a niente perchè alla Stoppa abbiamo degustato che era già buio quindi niente visita ai vigneti...è complicatissimo scegliere il tipo di scarpe adatte quando si va per cantine...

10 commenti:

fahrenheit 451, sonia ha detto...

molto interessanti gli articoli sul blog, sarebbe piacevole passare dalla teoria alla pratica. Organizza qualche degustazione a tema. grazie

vit ha detto...

volentieri. scegli una data e sarà fatto!

fahrenheit 451, sonia ha detto...

Ice wine (è scritto giusto?) perchè non c'è un capitolo dedicato a questo tema? mi interesserebbe trovare una piccola storia delle produzioni piacentine, se ci sono.

vit ha detto...

sì, si scrive Ice Wine (o Eiswein, in tedesco). Anche se ogni tanto (era il 2006) saltano fuori articoli demenziali sulla Libertà tipo: QUEST'ANNO NON SI PRODURRA' EISWEIN NEI COLLI PIACENTINI, manco fossimo in Mosella, no, nei Colli Piacentini non esistono e non sono mai esistiti veri e propri Eiswein. Il clima non è quello giusto, il freddo non è lo stesso che si trova in Germania, Austria e Canada nella zone di produzione degli IceWine e Eiswein storici.
Esiste tuttavia un vino, Emozioni di Ghiaccio, prodotto sulla collina di Monterosso in quel di Castell'Arquato da Massimilino Croci. Mi risulta però che il vino si ispiri alle produzioni sopracitate, ma solo parte delle uve ghiaccia e non è quindi un vero e proprio Vino di Ghiaccio. Massimiliano comunque, un ragazzo molto volenteroso e intelligente, ha proposto la creazione di un disciplinare di produzione per i Vini di Ghiaccio italiani.
A breve parlerò più approfonditamente anche di questo vino, nell'ambito della degustazione dei vini piacentini da uve appassite che sto organizzando. Lì vorrei aprire una discussione su quale possa essere la metodologia di appassimento più idonea per la malvasia e per la nostra zona...detto per inciso, oggi credo più in altre tipologie di appassimento, più che nel metodo Vino di Ghiaccio...

Anonimo ha detto...

Leggere di Malvasia Passito mi stimola sempre salivazione in bocca, è la bevanda che mi ingolosisce di più..sarà anche grazie al suo colore caldo e invitante e alla sua oleosità che ricorda il miele, che a sua volta mi riporta ai primi fiori selvatici nei campi e forse all'infanzia e al raccolto di tutto ciò che sta sotto le scarpe.. per cui alla fine, ritorno alla realtà con il tuo interrogativo. Le scarpe giuste, nei campi e in vigna non ci sono. Ma lo stile giusto c'è e ce l'ha mostrato Matteo!

Anonimo ha detto...

Parlando di Ice Wine Piacentino non posso che sentirmi tirato in causa, bè certo Innanzi tutto preferisco parlare di Vino di Ghiaccio se non altro perchè sono un pò nazionalista.
Comunque, certamente non esiste una tradizione di vino del ghiaccio a piacenza, ma di dolci da sovramaturazioni si. La mia sperimentazione e poi affinamento della tecnica nasce dalla voglia di valorizzare le nostre uve cercando qualcosa che attirasse anche un pò di curiosità (penso di esserci riuscito). Grazie a un pò di giretti e incontri fortuiti ho scoperto trucchi di questa tecniche che non si leggono sui libri. Dialogando con Jeff Connell produttore in Ontario ho scoperto che i giorni e le temperature di gelata nell'arco dell'inverno nella sua azienda non erano così distanti dai nostri sottolineandomi il fatto che fosse sullo stesso parallelo di Siena, poi vedendo altre esperienze italiane ho iniziato questa produzione usando le uve più tipiche delle nostre colline Malvasia di candia e moscato bianco. Il limite è sicuramente che usando queste uve l'acidità non può essere elevata. Ma le mie soddisfazioni le ho avute, ricevendo complimenti da produttori storici come Pillittiri e ricevendo la visita di Dominic Rivard pluripremiato winemaker di ice wine. Io ci credo molto in questo metodo e mi piacerebbe che altri iniziassero in questa direzione, certo è che se i giornalisti cercano sempre i sensazionalismi non è colpa mia. Comunque quando farai un post sui vini di ghiaccio mi piacerebbe parlare un po' di tecnicismi, e possiamo iniziare a parlare di vero e proprio Vino di Ghiaccio
A presto

Anonimo ha detto...

innanzi tutto buondì a tutti,poi vorrei dirti caro vitt che non c'era bisogno di un blog per tacchinare(profilo,dati ecc ecc)bastava iscriversi ad una rubrica di cuori solitari ed avresti ottenuto sicuramente magg successo.
a partegli scherzi bello il tuo blog anche se dovresti aumentare le degustazioni e variare i vini,citerei anche i vari minicorsi e i risultati(vino piu votato, tipologia,caratteristiche)andrebbero sicuramente ad arricchire e rendere piu interessante per un maggior numero di utenti questo tuo spazio.
ruat.dp

vit ha detto...

Ciao Massimiliano,
intanto grazie per il tuo commento.
Farò un post su Eiswein e simili, la scusa sarà una degustazione di vini di varia provenienza prodotti con questa tecnica, e tu...mi darai una mano nel reperire le bottiglie, ci stai?
Lì potremo approfondire questioni tecniche, come il discorso relativo all'acidità, e in particolare alle acidità più basse che si raggiungono nelle tue uve rispetto a quelle coltivate più a nord e che, insieme ad altro, portano ad una netta differenza stilistica rispetto agli Eiswein settentrionali. Un polposo e maturo Vino di Ghiaccio mediterraneo può sembrare una contraddizione in termini!Ha senso chiamarlo Vino di Ghiaccio? Sì? No?...insomma, bisogna fare la degustazione e una bella chiaccherata invitando anche altri produttori!

Stefano ha detto...

Sono bellissime da leggere queste due degustazioni verticali, Vittorio, quindi devono essere state ancora più belle da fare. La verticale, di gran lunga soprattutto quella completa, cioè di tutte le annate prodotte, è la vera ‘lastra’, la vera radiografia di un vino, perché ne svela in (quasi, ovviamente) tutte le sfaccettature uno dei due suoi rapporti più intimi, quello col clima, e di controcanto ne fa intravedere l’altro, quello col terreno. In questo caso, poi, ed è evidentissimo che era questo il tuo obiettivo, la verticale totale è il miglior viatico possibile, quasi l’unico davvero credibile, per condurre delle riflessioni davvero approfondite su diversi argomenti, in questo caso sulle più adatte tipologie di appassimento della Malvasia.
La mia prima, quasi banale e comunque ovvia riflessione è che sull’efficacia tout court dell’appassimento dei grappoli stesi al sole sono i risultati a parlare, e da quanto si evince dalla tua degustazione (e anche da tante mie degustazioni personali, pur non così ‘verticalizzate’, e dall’opinione di tanti appassionati di vino), i suddetti risultati parlano molto molto bene.
Io personalmente, nel mio recente affrontare il tema ed il lavoro dell’appassimento, nel mio scalare questa montagna, ho sentito e scelto di aprire un’altra via, quella di un appassimento in sala chiusa poco spinto e con un corollario di tecniche (dal tipo di vendemmia ‘chirurgica’ eseguita al tipo di fermentazione e nutrizione dei lieviti adottata, dall’assenza totale di maturazione in legno ai tempi di imbottigliamento) atte a esaltare, nel vino, più la finezza, la freschezza, un’infantile fragranza fruttata, un impianto strutturale abbastanza nordico (in omaggio e a fotografia del nostro usuale clima di inizio autunno), che dei descrittori aromatici candito-fico-mediterranei, una struttura densa ed opulenta, un quadro, insomma, tipico di una notevole surmaturazione degli acini.
Ho fatto questa digressione personale per dire che però, pur battendo, per il mio personale gusto e per la mia visione delle cose, una strada diversa da quella dei due stupendi vini che avete degustato, oltre che apprezzarli tantissimo penso anche, come tu hai augurato, che possa essere una strada da percorrere anche da parte di altri produttori.
Con una fondamentale premessa, però. Più procedo nello sciorinarsi quotidiano del mio lavoro più penso che ciò che conta, nel raggiungere dei buoni risultati con un vino e nella focalizzazione di tutte (e sottolineo tutte) le potenzialità di un vitigno, soprattutto di un grande vitigno come la Malvasia, più che le diverse metodologie produttive che si possono adottare conta l’atteggiamento interiore che guida il produrre vino. Un grande vitigno è anche un coacervo di caratteristiche, di aspetti, di sfumature numerosissime e veramente diverse e a volte quasi contraddittorie tra loro: per cui una sola metodologia, anche se per taluni aspetti azzeccatissima, non può esaurire tutto ciò che si può trarre da una varietà d’uva e dal territorio che la ospita, la abbraccia e la pervade. Ed io, pur convinto della strada che sto percorrendo, non penso certo che possiamo ottenere, io e la mia strada, tutto il meglio che si possa trarre dall’uva a cui mi sto applicando. Anzi…
Ancora più importante, sempre a propositi dell’atteggiamento: credo che risultati enologici anche diversissimi tra loro possano in realtà parlare una lingua profondamente comune, che è quella di rispecchiare, sotto luci diverse, l’anima di un vitigno, che, questa sì, è una sola. Nel caso della Malvasia, gli aromi tra pesca ed albicocca, lo sfondo agrumato, le quinte acute-speziate-a volte quasi verdi, la suadenza mai stucchevole, l’acidità e la tannicità sempre fortunatamente e salvificamente presenti, penso che possano risultare evidenti con tecniche di appassimento anche molto diverse tra loro.
Se a queste tecniche il produttore si applica con convinzione e consapevolezza di ciò che vuole ottenere, e in più, con passione e purezza ama l’uva, ebbene, parla una lingua universale. Se io confronto ad esempio un Barolo di Altare e uno di Cavallotto (afferenti a due scuole di pensiero apparentemente opposte una all’altra), riscontro già al colore delle differenze enormi (il primo più scuro, il secondo ben più chiaro), e tante altre differenze all’aroma e al gusto, ma l’anima del Nebbiolo da Barolo, i suoi descrittori aromatici, le sue caratteristiche essenziali, sono presenti in entrambi i vini.
Lo stesso discorso penso si possa fare coi Passiti. Personalmente, ho assaggiato alcune Malvasie Passite del nostro territorio molto diverse tra di loro nel colore, nella configurazione organolettica, nella densità, ma assolutamente simili nell’anima, negli aromi principali: ad esempio, gli aromi di pesca, di albicocca, di agrumi, di fresia, di tè, li sentivo in tutti i vini, semplicemente in alcuni più nella loro versione fresca e in altri più in quella matura o essiccata o candita. In tutte quelle Malvasie, insomma, parlava l’uva, e l’atteggiamento del vinificatore nel produrle era stato, in realtà, molto simile.
Questo per dire due cose. Innanzitutto, non credo che riguardo alle metodologie di appassimento esista LA strada: penso che esistano più strade per portare a un risultato piacevole e degno di esprimere al meglio un territorio, e non trovo poi che più stili diversi possano inficiare l’espressione del ‘terroir’, anzi, come detto prima (vedi l’esempio del Barolo e mille altri), ne vanno a rivelare molto più esaustivamente le tante sfaccettature. E anche se uno stile specifico raccogliesse i consensi della maggior parte degli appassionati di un determinato vino, ciò non vorrebbe dire che uno stile diverso non possa rappresentare altrettanto bene l’espressione di quel vino stesso. Rischio di ripetermi, ma voglio dire che sono il primo a credere che sia fondamentale, nel nostro lavoro di produttori di vino, scegliere una strada ben precisa e seguirla con grande convinzione, ma penso anche che l’universo cognitivo non si esaurisca ad essa: al di fuori del recinto delle nostre convinzioni, del nostro universo ideale e cognitivo, ci sono sempre molte prospettive interessanti e stimolanti, dall’intrinseca validità e ragion d’essere.
Seconda osservazione: ciò che non trovo opportuno, da parte di chi il vino lo produce, è scegliere una metodologia produttiva non con convinzione e consapevolezza precisa di ciò che si vuole ottenere, ma semplicemente perché in quel momento il mercato in quel momento va in una determinata direzione, o perché tutti fanno così o perché si pensa che sia più remunerativo nell’immediato, eccetera. Perciò, paradossalmente, penso che attualmente una fortuna dell’appassimento della Malvasia ‘alla luce del sole’ sia proprio il fatto che lo pratichino solo due produttori, che lo fanno appunto con convinzione e consapevolezza. Se poi altri li seguiranno in futuro sarò il primo ad esserne contento, ma solo se avverrà con intenzioni simili a quelle dei prima citati Elena e Matteo: altrimenti, come è capitato in tanti altri casi, si rischia di creare un polverone e confusione dovuta alla presenza di cattivi esempi (vini intristiti dall’uso inappropriato del legno, dalle imprecisioni olfattive, dalla mancanza di identità).
Ho sin qui parlato di massimi sistemi: ora vorrei concludere con due osservazioni un po’ più specifiche sul tema. La prima è che, sotto un particolare punto di vista, l’appassimento dei grappoli sotto il sole di settembre comporterebbe l’esaltazione di un elemento costitutivo del terroir, ossia la luce solare: i grappoli, vendemmiati e così scollegati dalla pianta e dal suo portato nutrizionale proveniente dal terreno e dalla fotosintesi, assorbono, del terroir, un elemento solo, i cui effetti sono così esasperati, moltiplicati innumerevoli volte. L’appassimento dei grappoli in cassette poste in una sala chiusa con l’ausilio di deumidificatori e ventilatori, o su graticci nel tradizionale fruttaio, invece, non esprimerebbe nemmeno un elemento del terroir, e rispetto alla precedente metodologia di appassimento è più discreto, più asettico. La base di partenza è però comune: il terroir nella sua completezza non è presente in nessuna delle due metodologie, nella seconda per definizione e nella prima perché l’elemento sole viene enfatizzato e sostituisce tutte le altre componenti territoriali. Nel fare queste osservazioni non voglio sottolineare eventuali aspetti negativi dei due metodi, anzi. In apparenza, l’appassimento ad opera dell’uomo è di per sé un’apparente forzatura, come per certi versi possono sembrare esserlo un salasso, un diradamento dei grappoli, e, proseguendo lungo questo credo poco equilibrato e paradossale modo di pensare (perché esclude lo scopo per cui l’uomo produce il vino), persino la potatura. Nella realtà, comunque lo si effettui, l’appassimento è l’esaltazione, concentrando e disidratando, di componenti spinte negli acini, prima della vendemmia, dalla natura, sia quella circostante la vite che quella ad essa consustanziale: è l’esaltazione, cioè, della natura stessa, dei suoi aromi, sia pure di quelli più maturi.
Il punto a cui volevo arrivare è che, quasi per definizione, mentre l’appassimento sotto il sole dà vini sicuramente più mediterranei, meridionaliformi e soprattutto, ciò che a me più interessa e stimola, più emozionali, sensuali ed intensi al profumo, frutto semantico del ‘parossismo’ tipico di questa metodologia, l’appassimento al chiuso dà vini meno pronunciati, meno esuberanti, ma ricchi di finezza, sfumature e sottigliezze, e, a seconda di fenomeni secondari come il marciume nobile, che in una sala d’appassimento possono a volte parzialmente avvenire, dotati di diversi piani aromatici. Sta al gusto personale di ognuno di noi preferire questa o quella tipologia, questo o quello universo organolettico, sensoriale e filosofico.
Seconda osservazione. Come si evince dalle tue degustazioni, Vittorio, e a dir la verità come ho sempre pensato nel mio piccolo anch’io, al contrario di quanto a volte si dice sui vini passiti (mi riferisco solo ai passiti veri e propri, non ai botritizzati), le differenze organolettiche dovute alle diverse annate in questi vini non sono attutite e quasi annullate dal procedimento dell’appassimento, ma risultano sempre evidenti: perchè l’appassimento, con qualsiasi metodo esso venga effettuato, non annulla l’effetto dato dall’andamento stagionale dei mesi durante i quali l’uva procede verso la sua maturazione, ma semplicemente su esso si innesta e da esso parte per dare l’ultimo fondamentale tocco, il quale, da questo punto di partenza, influenzato e in parte indirizzato.
E anche le differenze territoriali non sembrano essere tanto attutite dall’appassimento: da quanto ho dedotto, il filo conduttore complesso, ricco, pieno del Vigna del Volta è risultato ben distinto da quello mediterraneo, avvolgente, più felpato del Passito del Negrese. Differenze assolutamente coerenti con quelle che, nei vini bianchi e nei vini rossi, normalmente possiamo riscontrare mettendo a confronto tra loro le zone di provenienza dei due vini.
Qui si conclude il mio commento, e qui, vista la sua lunghezza, spero non si interrompa il mio rapporto col Blog di Vittorio, per mano sua o di bloggers giustamente inferociti.
Scusate e buoni Passiti (prodotti con qualsiasi metodo).

vit ha detto...

Non so se nel Guinness dei primati esista la categoria “IL COMMENTO PIU’ LUNGO MAI PUBBLICATO SU UN BLOG”. Dovesse esistere, caro Stefano, ti proporrei subito!
In realtà sono felice di un commento così profondo e ricco di sfumature, che apre tante porte.
Sono d’accordo con te quando dici che quel che più conta non è il metodo, il processo, la ricetta, lo schema, ma l’atteggiamento, la consapevolezza, l’attitudine. Quindi a risultati enologici diversi può corrispondere una lingua comune. E’ poi quello che, Passiti a parte, manca al Gutturnio, appunto una lingua comune che non significa fare tutti la stessa cosa, gli stessi vini, bensì avere una direzione simile, un atteggiamento condiviso, non schizofrenico. Perfetto da questo punto di vista l’esempio dei Barolo, dove la trita dicotomia modernismo-tradizionalismo è sì stata parziale invenzione mediatica, ma pur nasconde fondi di verità. Ma di fronte a certi esiti in bottiglia (appunto come l’Arborina di Altare e il Bricco Boschis San Giuseppe di Cavallotto, per citare due vini dei produttori da te citati) però la dicotomia crolla e svanisce, nel bicchiere le barriere s’annullano di fronte a vini che semplicemente rispettano e amplificano un territorio e un vitigno da punti di vista differenti (barrique-botte grande, macerazioni corte-macerazioni lunghe), con pronunce diverse parlando però la stessa lingua.
Ciò che spesso non si vuole accettare è che anche al di fuori del proprio universo cognitivo esistano strade stimolanti che possono pure incrociarsi con le proprie, ed esiste un possibile confronto con qualcosa di diverso che può solo essere positivo. Ma l’”universo” cognitivo di cui parli diventa in molti casi un misero “orticello”, una gabbia dove vegetare chiudendo gli occhi.
Alla prossima