lunedì 14 gennaio 2008

SI PARTE

Piacenza e i suoi colli vantano una lunga e poco conosciuta tradizione di vini prodotti da uve appassite, chiamati anche, già nei secoli scorsi, “vin santo” o “vino santo” (allora come oggi le sfumature che stanno tra “vino passito” e “vin(o) santo” possono essere molto sottili e i due termini erano-sono praticamente sinonimi). Solo negli ultimi anni però è iniziata una fase di valorizzazione qualitativa di questi prodotti, al punto che oggi alcuni tra i migliori vini da uve appassite italiani vengono proprio da questo territorio.

Questo blog vorrebbe divulgare in particolare la conoscenza dei vini passiti piacentini (e dei vini piacentini più in generale...sì, si parlerà anche di Gutturnio). Assaggiandoli, testandoli, confrontandoli con passiti di altri territori, parlando coi produttori, coi tecnici, sempre con un occhio a 360° su ciò che accade altrove, per conoscere e far conoscere un universo affascinante e sorprendente ma semi-inesplorato, anche negli stessi Colli Piacentini.




Vorrei iniziare col parlar di Vin Santi, di Vin Santi veri e propri, ovvero di ciò che in questo modo viene riconosciuto dai disciplinari. E prima ancora tentare di fare un po’ di chiarezza tra ciò che oggi s’intende per “Vino Passito” e per “Vin Santo”. Perché come detto a volte si rischia di parlare della stessa cosa (Il Vin Santo in fondo è una tipologia di vino passito), ma è possibile, generalizzando, indicare alcune differenze che più la tradizione che la legislazione ha permesso di evidenziare.
Alcune differenze tra Vini Passiti propriamente detti e Vin Santi: i Vin Santi non sono quasi mai realizzati a partire da uve aromatiche (se escludiamo una significativa eccezione, proprio piacentina, di cui parlerò in un prossimo post), al contrario di molti vini Passiti, e prevedono periodi di fermentazione-affinamento del mosto-vino mediamente più lunghi; i Vin Santi sono sempre vinificati in legno (rovere o altro) tramite l’impiego di batterie di botticelle di dimensioni differenti un po’ come avviene nella produzione degli aceti balsamici tradizionali, mentre i vini Passiti possono pure non vedere botti di legno; tradizionalmente, almeno in Toscana, il foro di cocchiume delle botticelle del Vin Santo veniva "murato" col cemento, pratica non usata per i Passiti; l'affinamento dei Vin Santi è effettuato tradizionalmente in sottotetti soggetti a sbalzi termici e le botti di affinamento sono lasciate scolme per sviluppare le caratteristiche note organolettiche ossidate, situazioni invece rare per molti vini Passiti prodotti in stile riduttivo. Inoltre la “madre” viene impiegata da un anno all’altro nella produzione dei Vin Santi, non dei Passiti.


Il Vin Santo in genere ha poco a che vedere con l'ortodossia enologica. Nel pianeta Vin Santo vige quasi una sorta d’irrazionalità enologica, ciò che altrove è aborrito qui è considerato virtù ed è in grado di generare vini emozionanti. Il giornalista e docente universitario statunitense Bill Nesto ha scritto che "… l'inevitabile ossidazione e gli elevati livelli di acidità volatile tipici dei Vin Santi artigianali, potrebbero essere gli ingredienti del peggior incubo di un enologo".


DISCIPLINARE E CARATTERI DEI VIN SANTI PIACENTINI
Tra le 18 tipologie di vino d.o.c. dei Colli Piacentini ne esistono 2 esplicitamente dedicate al Vin Santo.
Il Vin Santo dei Colli Piacentini deve essere prodotto da uve malvasia di Candia aromatica e/o ortrugo e/o sauvignon e/o marsanne e/o trebbiano romagnolo per almeno l’80% che possono provenire da tutti i comuni vitati della provincia. I rari Vin Santi piacentini (Vigoleno escluso) vengono però tutti prodotti da malvasia in purezza, con 4 anni di invecchiamento minimo del vino. Sono attualmente 3 i produttori iscritti, ma si può dire che ciascuno persegua e proponga un’idea a sé, ciascuno la propria ricetta e il proprio retaggio familiare, spesso sganciato da reali tradizioni contadine diffuse nella vallata o sottozona.
Non così nel territorio di Vigoleno, dove, in una zona dalla conformazione unica che i geologi conoscono come Formazione di Vigoleno, dal nome dell’omonimo borgo medievale posto ai confini orientali della provincia di Piacenza (sul crinale che separa la Val d'Ongina dalla Val Stirone, in comune di Vernasca), esiste un'area in cui alcune famiglie (i produttori, attualmente 7, sono in aumento), condividono una tecnica di produzione tramandata di padre in figlio dagli inizi dell’800 e che poche modifiche ha subito negli anni. Da stappare nelle grandi occasioni o da regalare alle persone più care, il Vin Santo di Vigoleno incarna una storia contadina dalle origini incerte ma dal sicuro fascino, perché ci parla di un vino antico, arcaico per tecniche e tecnologie di produzione (giusto qualche recente accorgimento nella scelta delle botti e nei supporti per l’appassimento delle uve), che ha rischiato l’estinzione sia per lo spopolamento delle colline, sia in seguito all’interruzione della tradizione che voleva il parroco di Vigoleno principale produttore. L'ultimo parroco a produrlo è stato Don Leonardini, che fino agli scorsi anni ’70 lo utilizzava per officiare Messa (per questo la vigna del Vin Santo, la meglio esposta della zona, era chiamata "Vigna della Madonna”) e lo inviava anche alle parrocchie vicine.
Poco conosciuto al di fuori della ristretta zona di produzione, vuoi per la produzione esigua (10-12 ettolitri l’anno!), vuoi per l’apparente gelosia con cui i produttori custodiscono il prezioso nettare quasi faticassero a separarsene, il Vin Santo di Vigoleno ha ritrovato slancio produttivo con l’entrata in scena delle nuove generazioni, disposte ad impiantare nuovi filari dei rari vitigni santa maria e melara e ad assecondare i lunghi periodi di affinamento previsti dal disciplinare (anzi, i 5 anni minimi diventano spesso 7-8), necessari per giungere alla complessità del prodotto finale, di grande consistenza e grassezza.
Il Vin Santo di Vigoleno è fra tutti i Vin Santi italiani quello che, per disciplinare, prevede il periodo minimo di affinamento più lungo prima dell'immissione al consumo, al pari solo di alcuni Vin Santi toscani Riserva e di certi Vin Santi "Occhio di pernice", ottenuti da uve rosse. Ed è il Vin Santo con la gradazione alcolica minima più elevata insieme ad un paio di Vin Santi “Occhio di pernice”. Ora, questi dati non significano che il Vin Santo di Vigoleno sia migliore degli altri, testimoniano però dell’impegno dei produttori, della loro volontà di creare qualcosa di importante che segua tempi d'evoluzione propri non eccessivamente dettati da esigenze di mercato.
Il disciplinare del Colli Piacentini Vin Santo di Vigoleno risale al 1996, e prevede l'utilizzo di uve quali marsanne e/o bervedino e/o sauvignon e/o ortrugo e/o trebbiano romagnolo per un minimo del 60%, mentre il rimanente può provenire da uve bianche non aromatiche raccomandate e/o autorizzate in provincia di Piacenza, in genere si tratta delle varietà santa maria e melara. Anzi i produttori a Vigoleno tendono ad utilizzare prevalentemente proprio la santa maria, considerata la varietà più idonea a realizzare il Vin Santo. La santa maria (iscritta al Catalogo nazionale delle varietà di viti nel 1999) è di origine sconosciuta; secondo la tradizione orale si tratta di una varietà tipica della Val d'Arda, così come la melara. Di solito si comincia con la raccolta della santa maria e poi, progressivamente, tutti gli altri. La santa maria presenta acini ovali, grappolo mediamente compatto, di media grandezza, a maturazione relativamente precoce; la melara ha il grappolo più piccolo della santa maria, più compatto ( anche se per l’appassimento si scelgono i più spargoli), acino grosso, buccia sottile e alta sensibilità al marciume e alla botrytis. Queste due uve hanno un potenziale zuccherino così elevato che se non fossero “accompagnate” da altre varietà meno zuccherine, il vino che se ne ricaverebbe sarebbe probabilmente stucchevole. Le altre varietà diluiscono un po’ il patrimonio zuccherino, favorendo la bevibilità.
(le foto che seguono provengono da www.crpv.it)

santa maria: foglia

santa maria: germoglio

santa maria: grappolo

melara: foglia

melara: germoglio

melara: grappolo


L'area di produzione del Vin Santo di Vigoleno comprende la porzione collinare tra la Valle d'Ongina e la Valle dello Stirone, compresa in parte del territorio collinare del territorio del comune di Vernasca ed esattamente:
partendo, a nord, in località Riocorto, dall'incrocio fra il torrente Ongina e il confine del Comune di Vernasca, verso nord, segue il ciglio destro del Torrente Ongina fino all'ansa in prossimità di quota 125, segue l'ansa e risale la carraia a quota 159, segue la strada dritta ad ovest di Colle San Giuseppe fino a quota 186 quindi la carraia scende a quota 182 sul confine comunale di Vernasca. Segue il confine comunale fino ad incontrare il Torrente Stirone che segna il confine della provincia di Piacenza. Si identifica, verso sud, con il ciglio sinistro del Torrente Stirone fino ad incontrare lo stradello che conduce a quota 173 in località San Genesio. Da San Genesio prosegue lungo la strada comunale fino ai Trabucchi e poi lungo la stessa strada provinciale di Borla fino a quota 234. Quindi sale la strada comunale dei Baroni passando per Perpiano e scende fino ad incrociare il ponte sul Torrente Ongina. Segue, verso Nord, il Torrente Ongina e si identifica con esso fino a ritornare al punto di partenza in località Riocorto.
Le uve utilizzate per il Vin Santo di Vigoleno provengono da vecchie vigne impiantate nei terreni esposti a sud sul versante dello Stirone e a ovest sul versante dell'Ongina, dove non è inconsueto trovare vigne di 40-50 anni o più. I terreni derivano da argille scagliose ed argilloscisti del pliocenico piacenziano, sono quindi di natura argillo-calcarea, spesso ciottolosi, rocciosi e asciutti. Più in dettaglio, verso il torrente si trovano argille chiare con blocchi di calcare, mentre verso il torrente Ongina banchi di calcare e arenaria si alternano ad argille sabbiose (con numerosa presenza di conchiglie fossili).
Le operazioni di vinificazione, di invecchiamento obbligatorio, di imbottigliamento e di affinamento in bottiglia devono essere effettuate solamente all'interno del territorio amministrativo del comune di Vernasca.
La resa di uva per ettaro è di 50 quintali, con resa massima di uva fresca da trasformare in vino finito del 30%. L'alcol effettivo minimo è di 10,5%, l'alcol totale è di 18%, l'acidità totale minima è di 5 gr/l., l'acidità volatile massima è di 1,6 gr/l e l'estratto secco netto minimo è di 22 gr/l. Le uve devono essere appassite su pianta e su graticci, prima della spremitura che può avvenire solo dopo il 1° dicembre dell'anno di raccolta, in modo da raggiungere un contenuto zuccherino non inferiore al 28%.
Il disciplinare parla di colore "dorato o ambrato più o meno intenso" (ma in realtà tende più spesso all'ambrato) e di sapore "dolce, armonico, pieno, corposo e vellutato". L'invecchiamento minimo deve essere di 60 mesi, di cui almeno 48 mesi in botti di legno (di capacità non superiore ai 500 litri) a decorrere dal 1° novembre dell'annata vendemmiale. In genere i produttori lasciano il vino in botte per i 60 mesi minimi previsti, ma qualcuno anche per periodi di tempo maggiori.
Il vino deve essere immesso al consumo esclusivamente in bottiglie "renane" di capacità 0,375-0,500-0,750 litri (ma ormai tutti utilizzano in prevalenza la bottiglia da mezzo litro) con tappo raso di sughero.
Bottiglie prodotte complessivamente: 2.500 – 2.700 bottiglie da 0,5 litri
Ettari vitati: circa 2 ( in futuro si prevede di arrivare a 4,5 - 5 ettari complessivi)
Il sistema di allevamento: Guyot alla piacentina, con uno sperone ed un tralcio, un braccio a monte e uno a valle, 10 gemme per tralcio (anche meno sulla santa maria e sull’ortrugo). I vecchi vigneti erano piantati a 2000 ceppi per ettaro; oggi le nuove vigne si impiantano a 4000 piante per ettaro ( 2.50x1.40).
Altitudine delle vigne: dai 170 ai 390 metri di altitudine s.l.m.


13 commenti:

fahrenheit 451, sonia ha detto...

"blog di-vino"!
c'è un assaggio di passiti per chi lo legge tutto?

vit ha detto...

Naturalmente!

Gevrey ha detto...

Bravo Vittorio,

complimenti per il tuo sforzo meritorio. Personalmente ho sempre considerato una sciagura il fatto di non esaltare produzioni storiche artigianali di alta qualità come queste, ma è ben risaputo che i piacentini negli ultimi tre secoli non hanno mai brillato per marketing e comunicazione. Quindi mi fanno piacere tutte le iniziative che come la tua pongono in risalto le nostre potenzialità e la nostra storia. Oggi fare vino "buono" non è più sufficiente, occorre vendere anche cultura.
Bisognerebbe creare qualche evento che possa dare risalto nazionale a questi vini. So che il Castello di Vigoleno ospita con molto successo di appassionati provenienti da fuori provincia una serie di concerti di musica lirica. Che ti risulti è già stato pensato ad un abbinamento col fluido locale, quanto mai adatto ad essere picevolmente degustato nel corso di una serata di alta musica?

vit ha detto...

Caro Gevrey,
in effetti non mi risulta siano stati fatti, pensati forse sì, tentativi di abbinamento tra la stagione lirica di Vigoleno ed il Vin Santo. Nulla di ragionato e organico per lo meno. Ragion per cui la prossima stagione lirica a Vigoleno (di cui non ho notizia ma che credo si farà anche nel 2008), come altri eventi nel borgo, potrebbe essere una buona occasione per organizzare qualcosa che possa valorizzazione e diffondere la conoscenza del Vin Santo.

Gevrey ha detto...

Caro Vittorio,

penso che la valorizzazione del vin santo debba prevedere due filoni essenziali: il primo è la comunicazione ed in questo anche quello che stai facendo è meritorio, il secondo è una migliore organizzazione di prodotto. Intendo dire che oggi come oggi questo vino è caratterizzato da una estrema variabilità da produttore a produttore.Questo perchè non esistono regole di vinificazione precise ma ogni famiglia usa metodi diversi tramandati da secoli. Questa è la magia ed il limite di questo prodotto nei confronti dei terzi consumatori.
Sopratutto i tempi della fermentazione alcolica iniziale a cielo aperto sono molto dissimili e possono giungere a molti mesi. Questo spiega la forte ossidazione di alcuni vin santi rispetto ad altri. I grandi toscani non lo fanno, immettendo direttamente il mosto pressato nelle botticelle da 30-50 litri assieme alla madre precedentemente recuperata e chiudendole ermeticamente: tutta la fermentazione avviene in un ambiente anaerobico, dura anni ma permette una maggiore freschezza.
Forse servirebbe un censimento dei produttori di Vigoleno rilevandone le diverse tecniche di vinificazione. Sarebbe un successo quello di cercare di unificarle. Tanto le differenze sarebbero comunque significative a causa delle colonie di lieviti autoctoni naturalmente presenti nelle singole cantine. L'individualità sarebbe rispettata in una minore fascia di variabilità.

vit ha detto...

Tra i vari Vin Santi di Vigoleno esiste è vero una certa variabilità, ma è altrettanto vero che tra alcuni di essi, i migliori, esiste e persiste da anni una variabilità che rispetta le singole differenze all’interno di una fascia di variabilità relativamente ristretta. E parlo di una fascia qualitativa elevata fatta di forza, carattere e rustica suadenza…poi anche a Vigoleno non tutto è di qualità eccelsa!
Credo esistano più regole comuni di vinificazione di quel che si pensa. E’ vero che si tratta magari di regole e consuetudini più tramandate che studiate, ma le regole comuni ci sono. Forse non si sono ancora prese abbastanza in considerazione le differenze tra i diversi vitigni impiegati, (non tutti i produttori utilizzano le stesse percentuali di uva, chi più santa maria, chi più ortrugo ad esempio) e fra i diversi suoli-sottosuoli, fra i diversi micro-territori. Ad esempio a Case Orsi verso lo Stirone vi è ricchezza di argille chiare con presenza di blocchi di calcari, mentre verso l’Ongina i banchi di calcari e arenaria si alternano ad argille sabbiose con forte presenza di conchiglie fossili. Gli studi specifici in materia sono solo accennati, ma questa potrebbe essere una strada di ricerca da seguire per comprendere, quindi valorizzare e comunicare meglio di quanto non si faccia oggi questi nettari.

FB ha detto...

Bravo Vittorio! Un ottimo blog, basilare per una provincia come la nostra che vuole e deve scommettere sui vini passiti. Riprendo il commento di “VIT”: anch’io mi appassiono all’ipotesi di approfondire la correlazione tra terre fossilifere e qualità del vino (a suo tempo l’Università di Piacenza, la Riserva del Piacenziano e in particolare il Dott. Gian Luca Raineri e il Dott. Carlo Francou avevano cominciato a ”scavare” in questo senso - vedi il convegno Terra e Vino), riprenderei quelle analisi coinvolgendo ancora la Riserva e anche il Parco dello Stirone.

Anonimo ha detto...

Bravo Vittorio........come sempre un mix di Passione , competenza, conoscenza.
Adesso avanti tutta, aspetto qualcosa sui rossi toscani e piemontesi
ciao
Jean.So

Anonimo ha detto...

Caro Vittorio, ci sono alcune parti del Blog che non analizzano a fondo le problematiche Vinsanto.
Prima considerazione:
Fino a quando dobbiamo considerare un prodotto vinsanto e da quando possiamo definirlo passito? Domanda forte non credi? il gusto moderno del consumatore non è poi così prono verso il vinsanto, ma apprezza di più i passiti (più dolci, più ruffiani, aromi più semplici)in quanto più piacevoli. Ciò non vuol dire che i vinsanti non abbiano una propria dignità gustativa anzi.....
Tornando però sul tema le aziende produttrici di vinsanti hanno sempre più addolcito i propri prodotti, e quindi abbiamo una grandissima confusione in atto e non vi è un confine così certo da poter definire a volte le due cose.
Allacciandomi ai pensieri esposti sopra mi porto nel lato tecnico......come si fanno questi vinsanti?
fermo restando la tecnica dell'appassimento (in pianta o in appassitoio, con preferenza a quest'ultima per i prodotti di altissima qualità), la tecnica di trasformazione negli ultimi anni si sta spostando sempre più su fermentazioni guidate, con lieviti selezionati, con aggiunta di nutrimenti naturali(scorze di lievito); ciò porta alla standardizzazione dei prodotti che però sono più sicuri e apprezzati dal mercato.
La perplessità su quest'ultima considerazione nasce sulla standardizzazione, sulla perdita di personalità che si ha con il proliferare della moderna tecnica fermentativa in certe tipologie di prodotti; il vinsanto tradizionale che oserei definire "quello vero" si produce attraverso la tecnica della muratura, ovvero si murano i caratelli con il mosto all'interno (caratelli in cui magari è presente una Madre) e si aspetta che avvenga una fermentazione mista (non solo alcolica)fatta da lieviti floor in completa assenza di aria (ovvero in ambiente anossico). da non dimenticare la gestione delle temperature date dalla natura(vinsanto deve essere messo sotto tetto, per avere sbalzi di temperature che favoriscono la molteplicità dei tipi di fermentazione)
Il dilemma......l'assoluta qualità standardizzata o.....la tipicità della tradizione? Il gusto sempre diverso dato anche dalla natura o il piacere di degustare il massimo che si può ottenere da queste uve?
Io direi che bisognerebbe cercare di proteggere il vero vinsanto, facendolo apprezzare e capire, ovvero bisogna saperlo comunicare...
Altra consiiderazione, non demonizzare i passiti o i vinsanti similpassiti, dobbiamo però creare un presupposto che differenzi il prodotto proveniente da tradizione(muratura)e progresso(fermentazione controllata); certo è che se si facesse seguire alla fermentazione in muratura una certa accuratezza enologica forse non ci sarebbe il proliferare di passiti similvinsanti e viceversa.
Certo di aver mosso qualcosa nei pensieri di tutti i miei complimenti vivissimi al più grande amante di vinsanti italiano
VITTORIO BARBIERI
ciao vittorio un abbraccio
GIOVANNI SORDI

vit ha detto...

Caro Giovanni,
la questione su dove possa essere posto il confine tra vinsanto e passito è, per gli addetti ai lavori, spinosa, ricca di sfumature e ambiguità, persino affascinante e magari pure un po’ capziosa, come già espresso nel blog.
I vinsanti hanno un’immagine vecchia e pesante, accentuata dai famigerati vinsanti liquorosi abbinati ai cantucci. Poi certamente le, ehm, esuberanze “volatili” ed altre imprecisioni di molti vinsanti artigianali contribuiscono a tenere a distanza molti consumatori. I passiti godono di un’immagine più moderna e seducente, il vinsanto non è sexy! E’ vero anche però che alcuni vinsanti artigianali (vedi Barattieri e certi toscani e trentini) riescono ad arrivare a vette di seducenza, piacevolezza e persino eleganza senza perdere in carattere, complessità e aderenza al territorio d’origine, basta spingersi un po’ oltre i colori a volte velati e i profumi ossidati! C’è un intero mondo dietro!
Il tuo intervento tocca per certi versi un tema molto sentito soprattutto in Toscana (la muratura dei caratelli non esiste e non è mai esisitita in Emilia Romagna e altrove) e in effetti è il punto di vista di un tecnico chiantigiano che ben conosce e vive la situazione della regione patria del vinsanto, dove è pure vero che molti vinsanti della tradizione avevano residui zuccherini non molto elevati o proprio bassi (a Vigoleno i residui sono mediamente elevati e i vini decisamente dolci, ad esempio, come anche in Trentino) ed erano/sono contrassegnati da un certo “nervosismo” gustativo”, però i temi che hai toccato riguardano in realtà tutti coloro che operano in ambito enogastronomico, soprattutto quando parli della dicotomia standardizzazione/difesa del sempre diverso.
Come detto Il Vin Santo ha poco a che vedere con l'ortodossia enologica. I concetti di frenesia, velocità e produzione in serie dell’enologia industriale sono in chiara antitesi con i concetti di lentezza e pazienza dei Vin Santi artigianali. Qui vige quasi una sorta di sadismo ed irrazionalità enologici, ciò che altrove è aborrito, qui è considerato virtù ed è in grado di generare vini emozionanti.
Sono d’accordissimo con te per quanto riguarda la scelta della difesa del sempre diverso. E mi ricollego volentieri a ciò che Slow Food pensa e fa a proposito di Vino Santo Trentino (un presidio Slow Food) in collaborazione con l’Associazione Produttori del Vino Santo Trentino, per meglio comunicare, tutelare e quindi valorizzare il prodotto in questione. Un esempio da seguire. Magari a Vigoleno, dove potrebbe nascere il presidio del Vin Santo lì prodotto dagli inizi dell’800.

Anonimo ha detto...

Caro Vittorio Concordo in quello che dici, ma la capacità del tecnico devrebbe portare a produrre vinsanti seducenti senza distruggere il nostro patrimonio culturale passato, lo dice chi è stato fra i primi a creare passiti in Toscana....
Il fatto è che bisognerebbe oltre che creare un presidio per i vinsanti trentini e naturalmente piacentini (di cui sai sono estimatore) anche un presidio di ciò che di poco è rimasto del vinsanto toscano.
Non vorrei sembrare controcorrente ed eccessivamente polemico ma secondo te è semplice per un vero amatore del vinsanto trovare un prodotto corrispondente alla grande tradizione toscana?
Un prodotto dove si sente l'agrume sia al palato che all'olfatto; non voglio parlare eccessivamente di residuo zuccherino in quanto come ben sai con le recenti tecniche di appassimento si arriva a concentrazioni elevatissime senza danneggiare eccessivamente la sanità delle uve, o comunque senza avere presenza di muffe non nobili.
Quindi direi che anche il residuo zuccherino è un concetto sorpassato.
Quello che vorrei dire è che è possibile sedurre anche mantenendo una tradizione enoica d'ccellenza come quella della fermentazione murata, in quanto aumentando l'appassimento la seduzione degli zuccheri in più darebbe quel carattere di modernità che aggiunto agli aromi e al gusto della tradizione riporterebbe il vinsanto toscano (quello vero) ai suoi fasti perduti.
Certo si torna alla solita problematica, la facilità della conduzione della fermentazione.........
Non vorrei sembrare ancora polemico, ma reputo la fermentazione controllata nel vinsanto una semplificazione che annulla la fantasia.
Ovvero troppo facile, troppo semplice, troppo standard.
Questo ultimo pensiero mi fa venire in mente la differenza nel fare un vino con tutto sangiovese e vinificare un merlot......
il primo è difficile, l'estrazione di colore impone un lavoro di cantina continuo, duro a volte anche rischioso (nella sovraestrazione di tannini non dolci); il secondo semplice, l'estrazione del colore non richiede grande sforzo, un risultato enologico non difficile da raggiungere.
Il vino di Sangiovese è il vino dell'enolgo che cura poche cantine, che tutti i giorni assaggia, che tutti i giorni varia le sue decisioni a seconda della situazione; il secondo vino, il Merlot è il vino della tranquillità, dell'enologo che lavora non assicurando la sua presenza
La stessa differenza trovo tra un vinsanto di muratura e uno fatto con fermentazione controllata e poi affinato in legno.
Vediamo però adesso lo sfondo economico che scenari potrebbe aprire...
il vinsanto di muratura si produce solo da noi.......è unico e nella sua unicità potrebbe avere il suo mercato;
Come un grande Brunello di Montalcino o un distinto Chianti Classico solo di sangiovese;
i buoni Merlot e i buoni Passiti si trovano in tutto il mondo
meditate gente....
e poi diamo a Cesare quel che di Cesare, i grandi passiti piacciono a tutti ma si debbono chiamare Passiti e NON VINSANTO
certo che queste mie considerazioni di getto siano di riflessione per tutti
ti saluto caramente
Giovanni Sordi

vit ha detto...

Interessante l’idea di un Presidio Slow Food sul vinsanto toscano, magari del Chianti o Chianti Classico.
Il parallelo tra sangiovese e merlot mi fa venire in mente paralleli possibili tra il merlot (sempre lui) e decine-centinaia di uve italiane (vedi quelle piacentine di cui prima o poi parleremo anche su questo blog).
E certo non può non affascinare il concetto di vino della tranquillità, di assenza dell’Emozione in un vino, contrapposto al rischio. Alla sorpresa. All’avventura. Il vino unico. Diverso. Altro.
Ricordo il racconto di Luigi Perini sulla torchiatura delle uve per il vinsanto di Vigoleno annata 2007, un’annata e un appassimento che hanno portato a gradazioni zuccherine estreme. Troppo. La conseguente preoccupazione negli occhi suoi e del fratello (“e adesso cosa facciamo? Cosa succederà?”) a causa dell’incognita andamento della fermentazione, del rischio di avere un vino stucchevole, anche per la scelta di non volere/potere aggiungere lieviti o attivanti.
Appunto l’incognita. L’avventura. Il rischio.

Giovanni ha detto...

Bene Vittorio, Dobbiamo lottare per la nostra tipicità di qualità, farne un baluardo contro la standardizzazione dei gusti, la loro industrializzazione.
Quindi direi di fare un presidio dei Vinsanti Italiani e dei sottopresidi delle varie zone, se non addirittura un concorso enologico nazionale al solo scopo di rendere visibilità alle vere caratteristiche di questi prodotti
ciao
Giovanni